tratto dall'Annuario Guida della città di Messina del 1902

FRATELLI ARMAO

SANTO STEFANO

Don Gaetano Armao e le influenze "colte"
di Maria Reginella

La prima produzione con il marchio "Fabbrica di Gaetano Armao e Fratelli" racchiuso dentro una cornice con motivi vegetali e volute, è costituita da mattoni in bianco e blu decorati con motivi raffinatissimi che richiamano quelli delle porcellane settecentesche europee. Alcuni di essi sono esposti a Palazzo Trabia, sede del Museo della ceramica, altri sono stati ritrovati nella terrazza di Palazzo Armao, recentemente restaurato, ma in origine costituivano probabilmente le pavimentazioni dei saloni del palazzo, sostituite in seguito, durante la ristrutturazione, da quelle napoletane marcate "Fratelli Tajani di Vietri", e "Succursale delle donne" di Napoli, che sono caratterizzate da motivi decorativi Liberty in sintonia con le decorazioni delle volte.

Nello steso palazzo è stato rinvenuto un pannello formato da trenta mattonelle marcate, nelle quali è raffigurata la "Grande revue passée par Napolèon III Empereur des Français", racchiusa entro una cornice decorata da palmette in blu e giallo. Questo pannello di raffinatissima fattura, ben realizzato dal punto di vista grafico e coloristico, ha dato origine ad una leggenda, secondo cui don Gaetano Armao per apprendere la nuova tecnica della ceramica avrebbe chiamato a Santo Stefano di Camastra ceramisti marsigliesi, che per diversi anni avrebbero lavorato nella sua fabbrica.

La lavorazione dell'argilla a scopo fittile è antichissima quanto lo stesso paese di Santo Stefano di Camastra, quello originario, anteriore alla disastrosa frana del 1682. I feudatari Don Giuseppe Lanza e Barresi (1628-1708) duca di Camastra e la moglie Donna Maria Gomez de Silveyra, principessa di Santo Stefano, volendo ricostruire il paese richiesero ed ottennero dal viceré spagnolo, unico rappresentante della corona in terra di Sicilia, la "licentia haedifìcandi" in un Piano del Castellacelo di loro proprietà, ricco di cave di argilla. Dal 1683, data della concessione della licenza e sotto la guida del principe, i contadini, trasformatisi in costruttori riedificarono nell'arco di ventitré anni il paese. La pianta del centro storico, un rombo inscritto in un quadrato, fu ideata dallo stesso principe e presenta analogie con gli impianti secenteschi dei giardini di Versailles e del Palazzo Reale di Madrid. Per l'opera di ricostruzione vicino al centro abitato vennero impiantati i cosidetti "stazzuni" presso le cave di argilla, di qualità eccellente, per la lavorazione di materiale da costruzione: tegole, mattoni e "catusa", o cilindri di terracotta. Da quella prima fase si passò ad una organizzazione più articolata per produrre laterizi, vasi, piatti e stoviglie di vario genere. Dopo la metà del XVIII secolo al seguito del ricco signore Antonino Strazzeri, principe di S. Elia, affluirono a S. Stefano maestri ceramisti come gli Azzolina e i Palermo da Caltagirone, i "maiolicari", Mazzeo e Tarallo da Barcellona, e altri maestri provenienti da luoghi diversi, principalmente dalla vicina Patti, i quali diedero il loro apporto di esperienza e di lavoro alle nascenti fabbriche del luogo. Gli scambi commerciali con i maestri "vietresi", i Pizzicara, consentirono ai ceramisti di Santo Stefano di apprendere e perfezionare la tecnica di rivestimento delle mattonelle. Fiorente ed apprezzata è stata a partire dal secolo XVIII la produzione di mattonelle maiolicate esportate in tutto il meridione e richieste anche da Caltagirone e Palermo, noti centri ceramici, per il rifacimento di pavimentazioni logorate dall'uso. La realizzazione delle mattonelle maiolicate richiese una migliore organizzazione delle officine che avevano bisogno di varie maestranze specializzate. I "turrazzara stampatura", detti così dalla località "Torrazzi", in prossimità delle cave d'argilla, cHamatijmche "stazzunara", scavavano la creta e avevano il compito di stampare, ossia pressare l'argilla in cassette di legno di cm 22 ed imprimere eventualmente con un marchio di bronzo il nome della fabbrica committente. La creta asciugando si riduceva e il mattone "stampato" raggiungeva la misura tradizionale di cm. 20 x 20. Una volta asciugati, i mattoni venivano messi a cuocere in forni a legna e venivano utilizzate per la cottura circa mille fascine di legna: per tale operazione si richiedeva sia l'opera dei cosidetti "infurnaturi", specializzati nel sistemare i mattoni dentro il forno utilizzando i "ritagghia", o ritagli di creta, per evitare che si toccassero l'uno con l'altro durante la cottura, che quella dei "cucitura" per il controllo del fuoco che doveva mantenere un calore costante. L'operazione di cottura durava circa venti ore e quella di raffreddamento quarantotto, un tempo superiore a quello richiesto per gli altri oggetti di ceramica. Al trasporto dei mattoni provvedevano le donne che riuscivano a trasportare con una pezza attoreigliata sul capo o "cruna", fino a trenta mattoni per volta dalla contrada "Turrazzi" ai luoghi d'imbarco a mare o alle botteghe del paese. Qui i mattoni venivano decorati utilizzando gli stampi a mascherine consistenti in cartoncini pesanti imbevuti di olio di lino, che una volta asciutti, diventati rigidi e impermeabili, venivano traforati secondo un disegno prestabilito in cui per ogni colore occorreva usare una mascherina diversa.I colori più usati erano il verde ramina, il giallo, il blu cobalto, il rosso e il manganese, quasi sempre su smalto bianco, ma alla fine dell'Ottocento vennero utilizzati smalti colorati, soprattutto di colore azzurro e giallo. Il prezzo aumentava a seconda della quantità di stampi utilizzati. Dopo la decorazione si procedeva alla seconda cottura, seguendo il procedimento usato anche nella prima. È proprio nel XIX secolo, che pur mantenendo viva la tradizione artigiana acquisita e sperimentata, si assiste alla trasformazione della tecnica di produzione da artigianale in industriale. L'aumentata richiesta di mattonelle maiolicate stimola officine ceramiche a produrre di più, meglio e in tempi più brevi. Il repertorio dei decori in un primo momento non è molto vasto. I disegni sono semplici, in genere in bianco e blu con l'aggiunta di qualche altro colore spugnato o marmorizzato. Ad ogni decoro viene dato un nome: "rococò", "cinque punti", "rigatino", "lancetta": in seguito i decori diventano più numerosi e ricchi, essendo venuti i ceramisti del luogo a conoscenza della ceramica napoletana. I fratelli "Liborio e Gaetano Armao di Michelangelo" nella prima metà del XIX secolo, pur continuando secondo la tradizione a produrre vasellame per uso domestico, si specializzano nella produzione di mattonelle stagnate e per migliorarne la qualità si preoccupano di perfezionare la tecnica del "biscotto", realizzando mattoni compatti e resistenti come quelli napoletani, anche se di misure poco usuali per S. Stefano: infatti si passa dalla tradizionale misura di cm 20 x 20 al 21 x 21 circa e allo spessore di cm 2,5. Per migliorare anche la tecnica pittorica gli Armao chiamano a S. Stefano ceramisti francesi che si fermano diversi anni a lavorare alle loro dipendenze. Migliorando la qualità dei colori e dello smalto stannifero che durante la cottura assume una maggiore luminosità si producono mattoni che si distinguono per raffinatezza, e per vivacità cromatica, per ricercatezza e sobrietà dei motivi decorativi. Pur tenedo conto della tradizione ceramica tipica di Santo Stefano vengono anche introdotti motivi francesi presenti nelle porcellane settecentesche che utilizzano solo il blu cobalto su bianco. Il decoro generalmente si completa su quattro o otto mattoni e pur utilizzando la mascherina per facilitare la lavorazione essi sono rifiniti a mano singolarmente, con l'aggiunta di perfili e tocchi di colore. I mattoni prodotti nella seconda metà del secolo XIX, pur presentando ancora un vivace decoro, sono più standardizzati e ridotti nelle misure di cm. 20 x 20 con uno spessore di cm 2. Alla fine dell'Ottocento le misure risultano ulteriormente ridotte a cm. 19 x 19 con uno spessore di cm 1,7; il decoro si svolge all'interno del singolo mattone che risulta privo di originalità; lo smalto diventa opaco e si perdono le caratteristiche di raffinatezza che avevano distinto le fabbriche Armao. Nell'Esposizione di Torino del 1884 la Ditta Armao è presente con vasi e "pregevoli saggi di pavimento"; nell'Esposizione di Messina ottiene una medaglia di bronzo e un'altra all'Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-92 per la produzione di mattonelle. I marchi degli Armao subiscono variazioni con il susseguirsi delle diverse generazioni della famiglia. Quello originario è costituito da un ovale o da un rettangolo con l'iscrizione "Fabbrica Premiata Fratelli Armao - Santo Stefano di Camastra", oppure da una cornice con volute e motivi vegetali con l'iscrizione di cui sopra. Agli inizi del 900 il marchio è semplicemente un ovale con l'iscrizione "Giuseppe Armao e Figli". Gli ultimi proprietari della fabbrica, non avendo eredi diretti, cedono la ditta alla famiglia Mazzeo con cui erano imparentati (questa fabbrica oggi non è più esistente). Un'altra ditta impegnata pure nella produzione di mattonelle smaltate, insieme agli Armao, è quella della famiglia Gerbino , suddivisa in vari rami, che ha prodotto oltre ai mattoni anche i "fangotti", o piatti usati originariamente per asciugare la conserva di pomodoro. I mattoni sono caratterizzati dalla tradizionale misura usata a S. Stefano di cm 20 x 20 o 19 x 19 e con spessore di cm 2. La decorazione è a mascherina con interventi manuali. I motivi decorativi prevalentemente geometrici e vegetali sono legati alla tradizione, come per esempio le trecce, e si articolano su quattro o otto mattoni; la qualità dello smalto e dei colori è buona. Anche le fabbriche dei Gerbino subiscono nei primi anni del secolo XX un declino dovuto all'immissione di manufatti prodotti in serie a più basso costo e provenienti dai grandi complessi industriali dell'Italia Settentrionale. I marchi sono diversi a seconda dei rami della famiglia: uno di questi, quello di " Salvatore Gerbino e fratelli ", è inscritto in un ovale e al centro vi è un'ancora. Mattoni con marchi della fabbrica Gerbino sono stati rinvenuti nel Palazzo Rudinì a Palermo durante i recenti lavori di restauro. Altri ceramisti hanno dato un notevole apporto alla produzione di mattonelle maiolicate, come per esempio le famiglie Prinzi, Napoli e Piscitello, quest'ultima proveniente da Napoli ed ancora attiva. La produzione di S. Stefano ha avuto larga diffusione non solo in Sicilia, ma anche a Reggio Calabria, in Sardegna e nei paesi arabi: Tunisia, Marocco e Turchia, in concorrenza con il mercato napoletano. Un punto di riferimento per una maggiore conoscenza della produzione delle maioliche pavimentate del XIX secolo sono le decorazioni di Casa Armao, dove in origine era stata impiantata la fabbrica, i fregi del restaurato Palazzo Sergio e i manti ceramici ancora esistenti del vecchio cimitero, detto anche "della ceramica", utilizzato tra il 1815 e il 1880, a metà strada tra l'antico centro di S. Stefano e quello odierno. Sono stati restaurati sessantadue monumenti sepolcrali degli ottantanove esistenti, in seguito all'intervento della Sez. II della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Messina finanziato con D.A. 934 del 15/05/990 dell'Assessorato Regionale BB. CC. AA. e PI., mentre ventisette monumenti attendono ancora il restauro... Si tratta di documenti preziosi, datati, e attraverso i marchi posti sul retro si possono individuare le botteghe di produzione (soprattutto Armao, Gerbino, Napoli) e le diverse tipologie dei mattoni. È interessante il confronto di alcuni mattoni di produzione stefanese con altri di produzione napoletana che ad un primo esame risultano simili. Il mattone, marcato Fabbrica Armao, e quelli marcati Alterio Aniello e Tommaso Bruno di Napoli, presentano lo stesso motivo decorativo con qualche piccola modifica, identità frquente che non permette di individuare il mattone prototipo perché si tratta di una produzione industriale: individuato un motivo che incontra il gusto del pubblico questo viene immediatamente riproposto da altre fabbriche. Nel dopoguerra, con la saturazione del mercato di mattoni provenienti dal Nord Italia, le fabbriche di Santo Stefano non hanno più prodotto mattoni e in genere la produzione ceramica ha subito una stasi. I pochi ceramisti rimasti hanno continuato a realizzare oggetti di uso quotidiano e solo in seguito all'apertura della Statale 113, lungo questo percorso sono nate nuove botteghe con lo scopo di offrire al turista oggetti tipici della tradizione di Santo Stefano o altri manufatti con pretese di originalità. Lavorando sugli ingobbi i ceramisti si sono ispirati alla tipologia greca, al genere grezzo con decori in rilievo, al genere graffito, ma con l'importazione di vasellame da Napoli e Deruta hanno ripreso la tecnica dell'invetriatura. Negli anni 50 è nata la Ditta Igor di Andrea Gerbino e Ignazio Orifici, che ha raggiunto un buon livello sia nello stile che nella tecnica, specializzata soprattutto nella produzione di eleganti servizi da tavola e di mattonelle maiolicate che riprendono i motivi tradizionali. Questa ditta, divenuta in breve tempo punto di riferimento di artisti per la realizzazione di oggetti d'arte, come per esempio Tono Zancanaro, ha cessato di esistere nel 1970. In questi ultimi anni altri ceramisti, si sono dedicati a questa produzione. Nel 1934 sulla scia del tradizionale artigianato locale è sorto l'Istituto di Arte per la ceramica allo scopo di formare la nuova generazione di ceramisti.
Maria Reginella

Testo pubblicato nel catalogo "Camminando sul passato" mattonella in terracotta maiolicata dal XVI al XX secolo edito dall Associazione Culturale Andrea Pantaleo - Monreale 1995 Per gentile concessione

Gli influssi della cultura napoletana
di Maria Reginella

Ma più che risalire all'influenza di ceramisti stranieri, sembra più realistico che Armao si sia ispirato ad alcuni prototipi delle più importanti fabbriche napoletane del tempo, come quelle dei Giustiniani, della Succursale delle donne, dei Fratelli Tajani, di Tommaso Bruno, già da tempo presenti nel mercato dell'isola. Infatti, la raffinata gamma coloristica e i motivi decorativi della produzione Armao sono più vicini alla produzione napoletana, piuttosto che a quella marsigliese, o calatina, o palermitana.

Questa ipotesi è supportata non solo dal confronto tra le due tipologie, ma anche da una motivazione storica. Armao, alla vigilia della rivoluzione del 1848, era uno dei membri del Comitato Civico Insurrezionale, antiborbonico, collegato a quello centrale di Napoli e per questo motivo era stato sottoposto a sorveglianza speciale dagli organi di polizia (è da ricordare per esempio che il moto antiborbonico messinese del 1° settembre 1847 era stato predisposto proprio dal Comitato centrale napoletano).

La comunanza di ideali politici può farci supporre che Armao abbia avuto la possibilità di avere contatti con ambienti napoletani, o che abbia avuto modo di conoscere direttamente la produzione delle fabbriche del tempo.

Il tema storico del pannello decorativo che raffigura l'Imperatore Napoleone III è stato ritenuto "la dimostrazione più evidente della presenza dei ceramisti francesi a Santo Stefano". È da supporre invece che sia stato realizzato su modello di una stampa francese, e la motivazione può ricercarsi nel momento storico in cui visse don Gaetano Armao che aveva un passato di patriota antiborbonico, essendo un sostenitore dell'Unità d'Italia. L'Imperatore Napoleone III nel Congresso di Parigi del 1856 aveva appoggiato la causa italiana e un mese dopo aveva rotto, insieme con l'Inghilterra, i rapporti diplomatici con la corte borbonica, una rottura che qualche anno dopo avrebbe impegnato Napoleone e le sue truppe nella seconda guerra d'indipendenza.

Nel 1861 all'Esposizione Italiana di Firenze Gaetano Armao venne premiato e il vecchio marchio fu sostituito da un ovale, con al centro uno stemma raffigurante un braccio armato che impugna uno spadino (quasi a rivendicare la discendenza dall'antenato don Michele Armao) con la nuova iscrizione "Premiata fabbrica Fratelli Armao". Nella seconda metà del XIX secolo la fabbrica Armao produceva mensilmente 15.000 mattoni maiolicati e possedeva a Palermo, nelle vicinanze, del porto della Cala, un grande deposito per imbarcare la produzione da esportare anche nei paesi del Nord-Africa. Ancora oggi è possibile ammirare alcuni pannelli parietali nei palazzi nobiliari o nei porticati delle moschee a Tunisi, in Algeria ed anche in Turchia.