L’oplita
fu uno dei primi soldati del mondo antico a combattere in formazione.
La nota formazione a “falange” che è diventata sinonimo dell’oplita
greco venne in realtà usata per la prima volta dai Sumeri, nel
2500 a.C., ma furono i Greci a renderla famosa. Armato con una
spada e una picca di quasi due metri, protetto da un elmetto,
un pettorale, una rinforzatura alle gambe, e uno scudo, l’oplita
era il bullo più grosso e cattivo di tutto il Mediterraneo.
L’oplita
è una versione aggiornata del lanciere standard. Il suo valore
difensivo di 3 lo rende un formidabile protettore di città e
colonie, che non verranno battute finché non si rende disponibile
il picchiere.
Uno
dei più consolidati luoghi comuni della storia militare è che
l'oplita greco fosse più addestrato e disciplinato del suo avversario
persiano.
In realtà l'oplita nasce tra la fine del secolo VIII e l'inizio
del VII proprio per l'esigenza opposta: l'impossibilità materiale
-- o l'indisponibilità -- del piccolo proprietario terriero
greco di addestrarsi al servizio militare con continuità.
Un rifiuto profondo, sottolineato da una reiterata e insistita
convinzione dell'inutilità e della nocività dell'addestramento.
Pericle, ad esempio, rimprovera gli spartani (che lo praticavano
con costanza) di dedicarvi troppo tempo.
L'oplita è il miglior soldato che il cittadino greco potesse
essere, un eccezionale esempio di economia di sforzi, non un
brillante modello di organizzazione militare: per fare un oplita
servono soprattutto molto denaro per l'equipaggiamento e forza
bruta per sostenerne il peso (dai 15 ai 20 kilogrammi), mentre
si possono minimizzare la necessità dell'addestramento, dell'organizzazione
e del coraggio personale.
Era assolutamente indispensabile, però, una dote in più, che
al cittadino greco non mancava: il legame e la fiducia tra commilitoni.
E' l'unità organica della falange, che tiene assieme vecchi
e giovani, più e meno ricchi, una unità di parenti, di sodali,
di amici, quando non di amanti, con la sua intrinseca qualità
egualitaria, a dare ai liberi greci la motivazione necessaria
ad affrontare la terribile esperienza della guerra. Consapevoli
che tutto il loro mondo è lì in quel momento e condivide lo
stesso destino.
Una solidità che era contemporaneamente la forza e l'intrinseca
debolezza della falange, quando gli avversari erano in grado
di trasformarla in rigidità.
Mosso dalla necessità di difendersi, il cittadino greco dedica
ad essa soprattutto risorse materiali, dotandosi in primo luogo
di una panoplia difensiva completa e costosissima, che aveva
come elemento principale l'Oplon, un ampio scudo circolare,
sempre riccamente decorato e personalizzato.
L'Oplon, da cui il nome oplita, non è uno scudo particolarmente
razionale: uno scudo di forma allungata, ovale o rettangolare,
segue meglio la forma del corpo umano e sfrutta con maggiore
efficacia il peso del materiale, al costo, però, soprattutto
di un maggiore addestramento, perché deve essere obbligatoriamente
usato in verticale
Uno scudo circolare è molto più facile da usare e l'Oplon, con
il suo metro circa di diametro, da un lato copriva più della
metà del corpo umano, e dall'altro delimitava lo spazio che
l'oplita doveva occupare sul campo di battaglia: teneva, insomma,
automaticamente le distanze a destra e a sinistra, dando un
preciso punto di riferimento per l'allineamento delle righe.
Tenendo gli Oplon sovrapposti l'uno all'altro, l'oplita poteva
anche garantirsi una discreta protezione del proprio fianco
destro, mantenendosi al riparo dello scudo impugnato dal commilitone
immediatamente su quel fianco.
Come descrive accuratamente Tucidide narrando la battaglia di
Mantineia del 418, questo generava una spontanea traslazione
della falange verso destra durante le marce: cercando di coprirsi
il più possibile sulla destra ci si avvicinava al compagno su
quel lato, serrando a destra ma contemporanemente spingendolo
ancora po' più a destra e allargando lo spazio sulla sinistra:
ne seguiva una reazione a catena che faceva procedere tutta
la formazione in diagonale.
Questo movimento provocava il reciproco sopravanzarsi delle
ali destre su quelle sinistre, che rischiavano di trovarsi circondate
dall'avversario: non un piano preordinato, ma un avvenimento
casuale che poteva essere adeguatamente sfruttato solo perché
il comandante in capo si posizionava proprio all'estremità destra
dello schieramento.
Grazie alla sua autorità ed esperienza, gli opliti che non trovavano
avversari di fronte a loro, manovravano chiudendo verso il nemico
con la sufficiente coerenza e solidità.
In effetti, l'unica necessità sul campo di battaglia della falange
oplitica era la coesione: l'uomo che abbandonava i suoi ranghi
per fuggire era dannoso quanto quello che, spinto da individualismo,
cercava gloria personale.
Il muro di scudi doveva rimanere compatto, a costo di marciare
più lentamente, come ad esempio preferivano fare gli spartani.
Era la compattezza dello sforzo a garantire la sinergia che
poteva valere la vittoria e ogni perdita di coesione rischiava
di sgretolare la falange sia fisicamente che moralmente.
Bastava anche una lieve sconnessione del terreno, o una pianura
troppo ampia che lasciava i fianchi scoperti, per rendere irrimediabilmente
vulnerabile la falange.
Un problema di equilibrio che incontrava il suo culmine durante
l'attacco. L'esigenza psicologica di andare incontro al nemico
per "farla finita e tornarsene a casa" si scontrava con la necessità
di mantenere la freddezza e l'ordine.
Il successo di un attacco dipendeva da fattori in potenziale
conflitto: con l'impeto giusto si poteva sferrare un colpo di
lancia potentissimo, ma troppo impeto poteva far rimanere infilzati
nelle lance degli avversari; con la velocità si acquisiva potenza,
ma ci si distanziava contemporaneamente dai ranghi di supporto,
col rischio di rimbalzare letteralmente contro una più lenta
ma anche più compatta massa avversaria.
L'indisciplina delle falangi oplitiche, la loro ansia di concludere
nel più breve tempo possibile l'esperienza della battaglia,
rendeva difficile il raggiungimento di questo già precario equilibrio
e fu all'origine di più di una sconfitta.
La lancia costituiva l'armamento principale dell'oplita. E'
un arma che non richiede addestramento particolare per essere
usata, non ha una scherma ricca, né sarebbe possibile per l'oplita
esercitarla, incapacitato nei movimenti dalla compattezza della
falange.
Un potente colpo sottomano poteva essere vibrato al momento
dell'impatto, diretto al ventre dell'avversario, evenualmente
lasciato esposto dalla protezione degli scudi in una falange
disordinata.
Quando le due falangi arrivavano a contatto di scudo, prevaleva
l'azione di spinta tesa a far indietreggiare e alla fine rovesciare
gli avversari: qui la coesione della falange era di vitale importanza,
vuoi per esercitare la spinta più costante e potente, vuoi per
tenere duro in caso di cedimento.
In queste mischie, chi aveva abbastanza mobilità e sostegno
dai ranghi posteriori, usava la lancia sopramano, ferendo l'avversario
nella parte superiore del corpo con colpi dall'alto verso il
basso: azione di spinta e delle lance si sommavano, anche questa
volta in un equilibrio precario e fragile.
Nel combattimento tra masse, i colpi venivano menati letteralmente
alla cieca e per questo la cecità non veniva considerata un'infermità
tale da giustificare il sottrarsi al proprio dovere di cittadini.
Erodoto elogia il cieco Eurito che alle Termopili si fece accompagnare
in battaglia da un servitore, mentre gli spartani giudicarono
codardo Aristodemo, cieco a sua volta, che a motivo della sua
infermità si sottrasse alla battaglia.
Spesso la lancia si pezzava al primo terribile urto e allora
il combattimento poteva trasformarsi in una spasmodica lotta
con il pezzo avanzato (che aveva un'apposita punta all'estremità),
con la spada oplitca (specialità spartana, questa) o persino
a mani nude.
L'oplita era un dilettante in armi, né pretendeva di essere
qualcosa di più, anzi, con la solita eccezione degli spartani,
diffidava profondamente delle mentalità e delle attitudini guerriere,
Guerrieri sui generis, incapaci di tattiche sofisticate, il
frutto peculiare della comunità di cittadini-agricoltori della
Grecia antica: non si capirono con i romani -- che disprezzavano
il loro amore per gli esercizi ginnici, ritenuti inutili perché
fini a se stessi e non indirizzati all'uso delle armi in guerra
-- figuriamoci se potevano capirsi coi persiani.
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